Gibuti è uno stato del Corno d’Africa, tra i più piccoli del continente oltre che tra i più poveri del mondo.
Negli ultimi dieci anni ha assistito a un incremento esponenziale della sua popolazione; la causa è l’afflusso di profughi provenienti dai paesi vicini (Eritrea, Somalia ed Etiopia) messi a dura prova da sanguinosi conflitti sociali interni, e da lunghi e drammatici momenti di siccità.
Questo afflusso ha avuto un costo enorme per Gibuti in termini di condizioni socio-economiche sempre più difficili e mutevoli. Al punto che una larga parte degli abitanti del paese
è affetta da malattie causate dalla malnutrizione e dalle cattive condizioni igieniche.
Più in generale, l’intero Corno d’Africa è oggi violentemente colpito dalla crisi planetaria, che inasprisce le condizioni già difficili in cui versa la zona: guerre, carestie e una costante e diffusa emergenza igienica.
A questo si aggiungono ulteriori elementi di difficoltà. Primo tra tutti l’infausta tradizione di mutilare gli organi genitali femminili, con gravissime conseguenze anche sanitarie, oltre che sociali.
Balbalà è il nome di una baraccopoli abitata da oltre 300.000 persone alla periferia di Gibuti; sono autoctoni e rifugiati delle vicine Etiopia, Eritrea e Somalia.
La maggioranza della popolazione versa in condizioni di estrema povertà, al limite della sopravvivenza. Quasi tutti vivono in baracche fatte di lamiera (da cui deriva il nome: Balbalà, cioè “metallo che luccica”), di cartone o di compensato, con un difficile accesso all’acqua e all’elettricità. Non esiste sistema fognario e la poca acqua che si trova è spesso molto inquinata. Il cibo è scarso e la possibilità di coltivazione e pascolo all’interno della baraccopoli è inesistente: la zona è infatti torrida, con temperature che, da maggio a settembre, toccano anche picchi di 50 gradi, in aggiunta ad altissimi tassi di umidità.
In tali condizioni, un bambino su tre soffre di malnutrizione severa e i tassi di analfabetismo e di disoccupazione sono elevatissimi.